In un recente articolo, la rivista Economist si interroga sulla nuova commodity definita “il petrolio dell’era digitale”, ovvero le informazioni. Colossi come Google, Amazon e Facebook sembrano, infatti, inarrestabili: i loro profitti sono in crescita e ben oltre i $ 25 miliardi netti, solo nel primo trimestre del 2017.
Oggi pochi possono dire di poter e voler vivere senza il motore di ricerca di Google, la consegna a domicilio di Amazon o il feed di notizie di Facebook. Lungi dalla perdita di consumatori, molti dei loro servizi sono gratuiti e, quelli a pagamento, consegnano a questi titani dell’era digitale ancora più dati sui loro utenti.
Nella nuova data economy, però, questo accentramento informativo sembra destare qualche preoccupazione. La mole e il controllo dei dati da parte di queste aziende, infatti, offrono loro enormi potenzialità. Il proliferare di smartphone e, più in generale, l’uso della rete internet hanno reso le informazioni sovrabbondanti, onnipresenti e molto più preziose. Nel frattempo, accanto alle consolidate tecniche di intelligence, proliferano nuovi strumenti operativi capaci di estrarre ancor più valore dai dati grezzi. A fini di marketing commerciale, ad esempio, vi sono algoritmi capaci di prevedere quando un cliente è pronto ad acquistare; parimenti, a fini di security, le tracce digitali sono sempre più utili agli analisti per poter fare inferenze su singoli profili di rischio, dalla web reputation di un soggetto all’identificazione di potenziali influencer in ambito terroristico.
Questa abbondanza di dati modifica anche la natura della concorrenza, leale e sleale: raccogliendo una quantità maggiore e migliore di dati, un’azienda può più facilmente migliorare i propri prodotti, attrarre utenti e generare a sua volta ancora più dati. Ciò sta imponendo nuove riflessioni anche in materia di antitrust, per l’aggiornamento dei sistemi internazionali di regulation attualmente esistenti, prendendo in considerazione anche l’entità dell’asset rappresentato dalle informazioni nella valutazione dei diversi deal. Non solo, le aziende potrebbero essere costrette in futuro a rivelare ai consumatori di quante e quali informazioni dispongono, nonché di quanto ricavano grazie ad esse.
Del resto, perfino i governi nazionali sono stati più volte incoraggiati ad aprire a soggetti certificati alcuni database; in Italia, ad esempio, diverse proposte sono state fatte per un accesso facilitato e telematico alle banche dati della pubblica amministrazione da parte di istituti investigativi in possesso delle necessarie licenze ed autorizzazione all’esercizio. Condivisione e privacy, tuttavia, viaggiano parallele su un confine molto sottile, dove a volte è l’utente stesso della rete a non essere consapevole della mole di informazioni che condivide sulla propria persona.
Ne consegue che la tutela e l’acquisizione di informazioni considerate strategiche e sensibili rappresenta oggi da un lato un motore di sviluppo in campo aziendale, così come una priorità in termini di privacy per ogni singolo individuo.